Tra cultura e superstizione il culto di San Paolo a Galatina protettore delle tarantate.

Rappresentazione pittorica di scena dionisiaca

Dietro tutti i festival delle Notti della Taranta c'è un antico retaggio culturale. Dietro la cultura ci sono superstizione e religione ma ancora prima troviamo riti pagani stratificati tra le pieghe del mito  e la necessità di sollevarsi dalle miserie della vita con il sacro.

Parlando di “follia”, occorre innanzitutto partire dal fatto che, come la concezione di arte, anche quella di malattia mentale ha subito notevoli mutamenti nel corso del tempo, per cui ciò che oggi intendiamo con il termine “pazzia” non è certo riconducibile al significato che aveva nell’antichità, nel Medioevo e nei secoli successivi. 

Luigi Stifani, Salvatora Marzo, Pasquale Zizzani, durante l’esorcismo di una tarantata. Archivio Pinna 1959

Per guarire dalla follia occorreva un rito purificatore, una sorta di esorcismo. Si ritiene che in ambito greco, a differenza di quanto capitava in quello ebraico, il demone non venisse scacciato del tutto ma, piuttosto, ammansito. Questo perché, mentre per gli ebrei il demone è manifestazione del Male e in quanto tale va eliminato, per i greci, invece, esso è un’entità intermedia tra l’umano e il divino, e appartiene alla sfera del sacro. È interessante notare questa differenza perché segnala un diverso approccio all’irrazionale: paradossalmente, proprio nel mondo greco, che ha visto nascere le forme moderne della razionalità, la prossimità all’irrazionale non viene cancellata.

Accanto all’esorcismo vi sono i rituali di guarigione attraverso cure iniziatiche, che si svolgono secondo modalità collettive e “teatrali” molto simili a quelle del tarantismo.  

Nelle immagini delle Baccanti, possedute da Dioniso, trova espressione una forma di follia temporanea e ritualizzata. Durante il rito le donne impugnavano il tirso, una canna con una pigna in cima, e si allontanavano dalla famiglia al suono di flauti e tamburelli; si abbandonavano a danze sfrenate. Grazie alla musica dai ritmi ossessivi e alla danza, il rito si concludeva con la caduta in uno stato di trance, dopo il quale era possibile il ritorno delle donne all’ordine sociale tradizionale. La follia delle baccanti serviva a dare sfogo temporaneo agli impulsi irrazionali: resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura.

Rilievo con menadi danzanti, rielaborazione neoattica da modelli di kallimachos, 420-400 a.C. ca., Museo Barracco.

I riti dionisiaci erano collettivi e periodici, e pertanto integrati nella società e nella sua cultura. I comportamenti e le manifestazioni degli adepti, erano considerati normali e anzi costituivano una forma di conoscenza più profonda della realtà. I partecipanti erano donne e venivano non a caso chiamate “menadi”, cioè folli, a Sparta dysmàinai, brutte e folli. Si trattava in fondo della reintegrazione di due forme di marginalità, quella della follia e quella della donna, all’interno di una polis organizzata in modo prevalentemente maschile.

Le adepte erano organizzate in congregazioni che a Delfi erano chiamate delle tìadi (le “ribollenti”) e che possedevano una forma di ufficialità. In alcuni periodi dell’anno convergevano da diverse parti della Grecia verso Delfi e si poteva assistere allo spettacolo dei loro cortei danzanti lungo le strade. Naturalmente i veri e propri riti dionisiaci non si compivano in pubblico ma fuori dagli abitati, preferibilmente sulle montagne e comunque in luoghi marginali che favorivano una situazione psicologica di straniamento. La danza e la musica portano allo scatenamento dei sensi e alla perdita di coscienza, favorendo l’emergere di una dimensione irrazionale.

Baccante col caratteristico tirso ed un animale in spalla. Cratere attico a figure rosse, 480 a.C. circa

“Per i Greci la follia non fu solo il baratro buio della ragione, ma anche l’incontro con sfere nascoste della mente e con una dimensione dalla quale un essere umano resta escluso finché la mente non lo abbandona; non fu intesa solo come un cedimento della coscienza, ma anche come un mezzo per forzare i suoi limiti e dilatare la personalità. Perciò lo statuto della follia in Grecia oscilla tra due estremi: in parte corruzione dell’anima, in parte profonda esperienza dello spirito, poiché solo attraverso la follia si può giungere a esplorare l’estremo confine della natura umana.” Ai confini dell’anima. I Greci e la follia - Giulio Guidorizzi.

È significativo, a questo proposito, che proprio a Delfi vi fosse il santuario dedicato sia ad Apollo sia a Dioniso. Agli antichi culti dionisiaci, l’etnologo Ernesto De Martino, nel suo La terra del rimorso (1961) collegava un fenomeno che, al tempo dei suoi studi sul campo, sopravviveva solo in alcune zone del Salento, appena prima che molteplici fattori storico-culturali lo portassero a scomparire del tutto. Si tratta del tarantismo, fenomeno culturale risalente al Medioevo, ampiamente diffuso nelle regioni del Regno di Napoli, anche se a partire dal ‘700 si presentava localizzato principalmente nell’entroterra salentino, dove meglio si è conservata la nostra identità magnogreca. Il declino fu dovuto all’azione convergente del razionalismo illuminista e della Chiesa cattolica contro la sopravvivenza di riti magici e di superstizioni, ma soprattutto al processo di disgregazione culturale seguito alla scomparsa dell’antica società contadina. Si pensi al grande fenomeno della immigrazione che sopratutto a seguito dell’Unità di Italia, vide partire giovani famiglie in cerca di un futuro migliore verso il Nord America. E dopo la Seconda Guerra Mondiale verso le miniere del Centro Europa e Torino.

Secondo le credenze popolari, si trattava di una malattia provocata dal morso della taranta, un piccolo ragno attivo soprattutto nei mesi estivi. Provocava uno stato di malessere generale – dolori addominali, stato di catalessi, sudorazione, palpitazioni – e una sintomatologia psichiatrica simile all’epilessia. Le vittime più frequenti del tarantismo erano le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate dal ragno. 

Femmina di Latrodectus tredecimguttatus

Il corpo, che nella femmina può raggiungere i 15 mm, è contraddistinto dalla presenza di 13 macchie rosse. Questa colorazione, esibita a scopo di avvertimento contro i predatori, rappresenta un chiaro esempio di aposematismo nel mondo animale. Il morso della femmina, pur se meno pericoloso di quello della cugina americana (la famigerata Vedova nera - Latrodectus mactans), non è doloroso al momento ma successivamente provoca sudorazione, nausea, conati di vomito, febbre, cefalea, forti crampi addominali e nei casi più gravi perdita di sensi.

De Martino, coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi, mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disagio psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. L’interpretazione di De Martino conferisce agli elementi “taranta”, “morso”, “veleno”, “crisi”, “cura” e “guarigione” il significato di simboli mitico-rituali culturalmente condizionati nel loro funzionamento e nella loro efficacia. 

Il tarantismo non soltanto rinvia agli antichi culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica, ma sembra risentire di influenze che si possono genericamente definire afro-mediterranee, cui il sud Italia fu esposto a partire dal VII secolo, a causa del processo di espansione dell’Islam in quell’area.

Tra le due culture vi sono molte analogie se rapportate sul piano di due fenomeni: il menadismo per il mondo greco, una forma di frenesia estatica che coinvolgeva solitamente donne, rappresentate con indosso pelli di animali e spesso agitando un tamburello; la possessione da parte di entità demoniache per il modo africano. 

L’orchestra composta da organetto, violino e tamburo si accorda per eseguire una melodia che il ragno gradisca.

Archivio Pinna

Secondo De Martino, le tarantate «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”». Dioniso era il dio più importante della zona della Magna Grecia e molti elementi del tarantismo richiamano le strutture mitico-rituali e le funzioni esistenziali proprie della catartica coreutico-musicale presente nel mondo religioso greco. Non va dimenticato che in Salento si è conservata una enclave greca classica, dove si parla un dialetto greco, oggi oggetto di studi da parte dell’Università di Atene.

Il tarantismo conserva molti tratti degli antichi culti di possessione e del menadismo dionisiaco; esso costituisce un rituale di esorcismo coreutico, musicale e cromatico. E, come spesso è accaduto per i rituali a carattere magico o di derivazione pagana refrattari ad essere soppiantati, anche a questa tradizione si è cercato di dare una collocazione all’interno del culto cristiano: così si spiega il ruolo di San Paolo, ritenuto il santo protettore di coloro che sono stati pizzicati da un animale velenoso, a cui rivolgersi per ottenere la grazia di una guarigione.

L’esorcismo coreutico-musicale-cromatico poteva aver luogo sia all’aperto (campi, piazze) che a domicilio. Veniva predisposto uno spazio rituale (generalmente un lenzuolo bianco disteso per terra), cosparso di nastrini colorati o altri oggetti. I musicisti, attraverso la musica, eseguivano una fase esplorativa per scoprire quale tipo di taranta fosse la responsabile dell’avvelenamento (si distinguevano, per esempio, la “taranta ballerina”, la “taranta libertina”, la “taranta triste e muta”, la “taranta tempestosa”, la ”taranta d’acqua” ). Il tipo di melodia che scatenava la danza della tarantata indicava il tipo di ragno che l’aveva morsa.

Dopo questa fase diagnostica spesso aveva luogo una fase “cromatica”, in cui la tarantata veniva attratta dai colori, in particolare dai nastri e dai fazzoletti colorati che circondavano il perimetro cerimoniale. Iniziava quindi una fase coreutica in cui la tarantata cominciava ad agitarsi, a dimenarsi come se fosse stata in preda a convulsioni, ad assumere delle posture particolari, disinibite e talvolta esplicitamente erotiche, e poteva avere atteggiamenti che ricordavano quelli dello stesso ragno e spesso, nella danza incessante, raggiungeva uno stato di trance. La tarantata eseguiva il ballo della pizzica in duplice veste: come vittima posseduta dal ragno e, nello stesso tempo, come eroina che piegava e sconfiggeva la bestia facendola danzare con lei fino a sfiancarla. Il rito poteva andare avanti per molte ore e addirittura per giorni, fino alla scomparsa dei sintomi. A grazia ricevuta, cioè ottenuta la guarigione, la tarantata cadeva sfinita in un sonno profondo.

Maria di Nardò in stato di trance, Galatina,1959 (Foto archivio Pinna)

Il 29 di giugno, poi, giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, nel piazzale antistante la Chiesa di Galatina ad essi dedicata, si ripeteva il rito come atto di devozione e di ringraziamento al santo che aveva operato la grazia.

De Martino respinge la spiegazione puramente medica del fenomeno, ipotizzando che la crisi reale dovuta al morso del ragno (latrodectismo) era, in quella cultura, diventata l’occasione per evocare, configurare, far defluire altre forme di “avvelenamento simbolico”: frustrazioni, traumi e conflitti irrisolti. In occasione di determinati momenti critici dell’esistenza, come la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti familiari, la miseria e la fame, insorgeva la “crisi dell’avvelenato”, utilizzando il modello del latrodectismo simbolicamente riplasmato come morso di taranta, che scatenava una crisi da controllare mediante l’esorcismo della musica, della danza e dei colori e del sudore che fungeva da veicolo per espellere il veleno fuori dal corpo. 

Piazzale antistante cappella di San Paolo a Galatina, la folla protegge la tarantata.

Archivio Pinna

Il tarantismo inscenava un ‘delirio controllato’ analogo a quello dei rituali coribantici e del menadismo, fungendo da valvola di sfogo, da catarsi, per gruppi sociali solitamente costretti ad un ruolo subalterno: non a caso, l’epoca dei ‘rimorsi’ era la stagione estiva, quando la raccolta del grano e la pigiatura dell’uva nei tini, sotto il caldo torrido, metteva a dura prova le forze dei lavoratori. Inoltre, esso permetteva alle donne (di qualsiasi età, non necessariamente giovani) di sfogare i propri impulsi sessuali inconsci, di norma censurati dalla loro comunità, inscenandoli entro un quadro rituale socialmente accettato in quanto confinato entro un rituale accettato dalla cultura cattolica ma soprattutto confinato in uno specifico periodo dell’anno. Per le famiglie contadine dover sopportare i costi di giorni di rituali  (musicisti, assenza dal lavoro, cibo) non fosse cosa semplice: molto spesso si chiedeva un contributo in danaro a chi assisteva al fine di poter far fronte alle spese. La vittima della taranta danza sola (sempre al tempo dell'inchiesta di de Martino), in altre occasioni danzassero anche membri della sua famiglia o del suo entourage per aiutarla a superare la crisi. Nel rito superstizione e magia s’intrecciano attraverso i colori, la musica, il canto e la danza. I loro movimentai ora convulsi, ora lenti e malinconici, ora osceni, per arrivare alla manifestazione di convulsioni e ad assumere gli atteggiamenti dell’animale artefice del morso. Quando la tarantata calpesta simbolicamente il ragno, significa che il rituale è terminato e si è liberata ed è guarita. L’intero rito può durare giorni e giorni ed il morso e la liberazione divengono rituali e ricorsivi, in quanto il tarantato ogni anno ne subisce la ricaduta.  

Altare della Cappella di San Paolo, Galatina (LE)

Il simbolo della taranta costituiva un orizzonte mitico-rituale, culturalmente integrato, all’interno del quale evocare, configurare, far defluire e pertanto risolvere il “male” che azzannava dentro, cioè i conflitti psichici irrisoluti che “rimordono” nell’incoscio. Il rituale permetteva il trascendimento simbolico degli intimi conflitti della vittima e di riconciliarla con le sue esperienze dolorose, fino a restituire un senso ad una situazione altrimenti patita come caotica e destrutturante. Una volta scomparso quell’orizzonte culturale, non rimasero che la medicina e l’istituto psichiatrico ad “accogliere” questi conflitti, a connotarli non più nell’alveo mitico della lotta contro la bestia, ma a denotarli con i termini freddi del linguaggio scientifico, confinandoli nell’ombra ambigua e desolata del disagio psichico, allontanato e occultato dalla comunità ormai disgregata e senza più il senso del sacro, incapace di elaborare nuove forme culturali condivise tramite le quali dare forma ed espressione al disordine e alla crisi. “Oggi noi sappiamo che il morso non è un assalto di démone, ma il cattivo passato che torna e si propone alla scelta riparatrice. Momento di un interiore rimordere, sintomo cifrato di conflitti operanti nell’inconscio. Ecco perché il tarantismo ci riguarda da vicino e sfida, ancor oggi, le insidiate potenze della nostra modernità.” (Ernesto de Martino, da Sulla terra del rimorso)

Tarantola

Il nome tarantola era usato nei dintorni di Taranto già dalla fine del 1400 riferendosi alla Lycosa Tarantula. La credenza voleva che il morso di questo ragno provocasse una condizione patologica, detta tarantismo, caratterizzata da una situazione di malessere generale e una sintomatologia simile all'epilessia. Si riteneva fosse possibile neutralizzare gli effetti del veleno saltando e sudando copiosamente: da ciò nacque la credenza popolare che la danza potesse guarire dalla malattia. Il termine taranta è infatti anche usato come sinonimo di pizzica, la danza e il genere musicale generato e culturalmente connesso al tarantismo.

Di seguito il link del bellissimo documentario sul tarantismo realizzato con la consulenza di Ernesto De Martino. Il commento è di Salvatore Quasimodo, le musiche originali registrate da Diego Carpitella e la regia è di Gian Franco Mingozzi.

La taranta - Documentario

Il Salento è una zona dove e’ fortemente presente la civilta’ classica, sulla quale si è poi stratificata la fede cattolica. Sopravvive in un’area del Salento una enclave linguistica che conserva il lessico del greco antico. L’area viene oggi definita come Grecìa Salentina. Per tutti questi motivi il fenomeno che passa tra catarsi, isteria, malessere psicosomatico chiarisce che il Tarantismo è stato un fenomeno complesso e la taranta non si può individuare come un ballo popolare in maniera semplicistica. L’area era intrisa di valori e tradizioni con radici molto lontane nel tempo.

Il bianco lenzuolo divenuto nel tarantismo osservato da De Martino luogo del sacro, recinto sacro, perimetro rituale, forse in origine altro non era che il bianco lenzuolo, la sindone, il chitone di bianco lino tipico dei misteri dionisiaci che copriva l’iniziato.

Archivio Pinna

In uno dei  primi  documenti,  gli  atti  degli  apostoli,  si  narra  di  un avventuroso viaggio di San Paolo in nave dalla Grecia verso l’Italia, che naufraga nei pressi di Malta. Sulla riva San Paolo viene  morso  da  una  vipera  e miracolosamente si  libera dal veleno. I marinai lo pregano di aiutare il Re di Malta che era stato morso. San Paolo li accontenta diventando poi il protettore dei morsi velenosi. La Cappella di San Paolo porta con sé anche un’altra storia antica, a cavallo tra la fede e la leggenda. Si racconta, infatti, che per diffondere la parola di Dio, i discepoli Pietro e Paolo partirono da Roma e arrivarono nel luogo in cui, tempo dopo, sarebbe sorta l’attuale Galatina, e una donna del posto li accolse con un calore tale da offrir loro un giaciglio dove riposare e del buon cibo. San Paolo ne rimane commosso e benedisse la donna e i suoi familiari, concedendole il grande potere di guarire le persone morse dagli animali velenosi. Per facilitare la donna nel suo compito, il santo consacrò l’acqua del pozzo presente nel cortile della sua abitazione, acqua che gli avvelenati avrebbero dovuto bere per espellere il veleno e il male interiore. Solo in seguito, con l’avanzare della tradizione, fu costruita la rinomata cappella intorno al pozzo, intitolandola a San Paolo.

Piazzale antistante la chiesa di San Paolo a Galatina, in occasione della annuale rievocazione.

La rota protegge e circonda le tarantate, assistite per evitare che si ferissero cadendo a suolo. Foto Giovanni Valentini

Tradizione  deriva  dal  latino  tradere  (consegnare,  trasmettere)  bagaglio  culturale  che  viene trasmesso  alle  generazioni  successive. Tradere  anche  tradire nel  senso  che  nel  bagaglio  culturale  trasmesso  alcune  cose  vengono  reinventate eventi e cose all’insegna del disvalore nel senso vengono dalle generazioni recepite, ma non fatte proprie.  “Ma se il tarantismo “puro” si è estinto, per la scomparsa dalle campagne della taranta o meglio per trasformazione economica, storica e sociale di questo territorio, si è andato sempre più amplificando, un movimento, per il quale è stato coniato il termine di neotarantismo, che ha acceso nuove dinamiche per la ricostruzione dell’«identità culturale salentina, con tutte le sue attuali contraddizioni … per gli effetti della globalizzazione. Un movimento che, superando il purismo di chi vuole mantenere intatte le tradizioni, mantenendo una visione estetizzante della civiltà contadina, individua, attraverso il linguaggio sublimale della musica-danza, le radici vitali delle vecchie culture contaminandole con altre espressioni culturali, con forme di improvvisazioni che producono elaborazioni innovative di grande successo nel bacino del mediterraneo e oltralpe”. V. Rossi (a cura di), Ricerche etnomusicologiche recenti in diverse aree culturali.

Tarantata sull’altare della cappella di San Pietro e Paolo a Galatina.

Usando un altro concetto demartiniano, il tarantismo appare come il rottame di un rito palingenitico, di un sogno di tale rinnovamento esistenziale. Proprio nella cappella sconsacrata di San Paolo a Galatina si consuma il momento più alto di un rito catartico e iniziatico, e si rivela palesemente la sua forte aderenza ai misteri orficodionisiaci; e consente di rinvenire sorprendenti identità in un fitto incrociarsi di nessi mitologici e mitico-rituali che il tarantismo possiede. La religione orfica si afferma dal VI-V secolo a.C. e si consolida poi in età ellenistica: si tratta di una forma di religione che ebbe fortune e momenti di decadenza in ben precise aree del Mediterraneo, con particolare diffusione nella Magna Grecia. Con l’orfismo si introduce nel politeismo greco un elemento molto importante, per noi se vogliamo connetterlo al tarantismo: il senso di colpa, precedentemente assente dalle vicende degli uomini e degli dei greci e, semmai, facente parte della morale giudaico-cristiana. Inoltre, la preghiera è intesa dagli orfici come rito catartico. «Il primo fattore rientrerà nello schema del tarantismo, in particolare entro la casistica dell’oistros mentre, riguardo al secondo, la differenza tra sintomi apparenti è determinante alla comprensione dell’essenza religiosa dell’orfismo e della successiva trasfigurazione nel tarantismo ». Dioniso è un dio sofferente, segnato da diverse caratteristiche fondamentali a prescindere dalle varianti che si son moltiplicate della sua storia mitica: in lui v’è un rapporto molto particolare con il femminile, con la follia, e con una tipologia del sacrificio.

Tarantata in casa, con la comunità che la sostiene. Archivio Pinna.

Ci fu un tempo in cui il tarantismo fu danza della spada e degli specchi, un rito antichissimo divenuto incomprensibile, ma appartenente probabilmente all’orizzonte mitico-rituale orfico, che vi celebrò la morte e resurrezione di Dioniso Zagreo e fondò quella che è stata definita come una prima cognizione del dolore e della salvazione pre-cristiani. E forse allora anche il bianco lenzuolo divenuto nel tarantismo osservato da De Martino luogo del sacro, recinto sacro, perimetro rituale, forse in origine altro non era che il bianco lenzuolo, la sindone, il chitone di bianco lino tipico dei misteri dionisiaci che copriva le spoglie del miste, dell’iniziato. E la danza dei tarantati, in origine, è una sequenza del mistero orfico: ha il compito di condurre all’estasi e ad un’esperienza guidata, canonica, della morte. Il tarantismo si ripeteva annualmente nel suo carattere di rito misterico, ma ormai privo di ogni diretto legame con la vecchia religione orfica, nel frattempo estintasi. A prolungarne la vita non fu allora l’inserimento di S.Paolo in età tardo-barocca, ma l’esistenza pregressa di un rapporto diretto tra matrice cristiana e matrice orfica di cui San Paolo è indizio rivelatore dalmomento che il cristianesimo paolino inaugura proprio una fede intesa come dagli orfici: gli uomini son colpevoli d’aver ucciso Cristo, come i Titani d’aver ucciso Dioniso Zagreo; vi è una identificazione dell’uomo con Cristo cosìcome gli orfici intendevano nel mistero il vincolo spirituale con Dioniso. Scrive Annarita Zazzaroni, che fin dalle origini della civiltà il mito e il rito sono nati congiunti: il rito è la riattualizzazione del mito, il suo eternarsi in azioni collettive dal valore simbolico, sacrale e religioso. Questo è vero soprattutto per i rituali sociali di tipo tradizionale e folclorico, i quali attingono maggiormente alle radici antiche della storia della cultura. Un esempio concreto si ha nelle feste, rituali collettivi di rinascita sociale e personale, in cui la musica e la danza, quindi il ritmo, hanno funzione aggregante e costitutiva del rito stesso. Ogni festa rituale, ripetendosi ciclicamente e immutabilmente secondo un preciso codice etnografico, chiama in causa un tempo mitico, cioè un tempo di rigenerazione e di rinascita, in cui il simbolismo e il tessuto mitologico hanno un peso notevole. È in questo contesto che si inserisce anche una rivisitazione italiana del mito di Aracne: il fenomeno antropologico, letterario e musicale del tarantismo, diffuso in tutto il Sud Italia e, con alcune varianti, anche in Spagna.

Pozzo di San Paolo - Cappella di San Pietro e Paolo, Galatina

Il tarantismo è un fenomeno complesso, esso può esser visto anche come una variazione sulla figura di Aracne, la quale nel suo animale simbolico richiama appunto anche l’oscurità e la potenza di una divinità malefica che si impadronisce dell’umano, abitando in esso e rivelando i lati oscuri dell’inconscio, angoli bui frutto di un’oppressione sociale e culturale, che spesso si lega a un’insoddisfazione affettiva. Nella tarantata che balla senza freni e senza sosta, ripetendo le movenze di un ragno che tesse, l’umano e il divino insinuato in esso ripetono lo scontro mitico tra la donna Aracne e la dea Atena; e al tempo stesso perpetuano l’immagine della donna trasformata in ragno, vivificando, nel vero senso della parola, quel mito. Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Aracne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Aracne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Aracne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite. Possiamo quindi dire che nel tarantismo ci si trova di fronte a un sommo esempio di come il il mito, quando si lega al rito, possa davvero generare comportamenti reali ed effettivi, prendendo una vita propria. Non è un caso, infine, che il mito di Aracne, anche attraverso le implicazioni socio-culturali che emergono dal tarantismo, si delinei come un mito femminile per eccellenza.

Aracne in un'incisione di Gustave Doré per il dodicesimo canto (c. XII) del Purgatorio

Interessante a proposito della lotta tra umano e divino, componente identificabile anche nel mito di Aracne, l’analisi fornita dal prof. De Giorgi, che parla di adorcismo, cioè di un’alleanza/possessione tra esseri umani e spiriti, diversa dall’esorcismo propriamente detto. L’adorcismo è infatti un procedimento positivo, di natura sciamanica, “che mette l’uomo sullo stesso piano delle divinità, e non in un rapporto di sudditanza [...] perché alla fine la componente malevola della taranta viene sconfitta”.

Ricollegandosi all’episodio mitico di Aracne, si potrebbe dunque arrivare a dire che la donna che aveva osato misurarsi con la divinità, e per questo era stata punita con la metamorfosi in insetto, diviene in questa sua condizione animale una figura divina, capace a sua volta con la propria presenza di provocare azioni metamorfiche. È da segnalare infatti come tra le simbologie del rito terapeutico musicale del tarantismo si trovi una fune che pende dal soffitto della stanza, fune a cui la tarantata si aggrappa, continuando a muoversi a ritmo di musica. Come non richiamare allora il suicidio per impiccagione di Aracne e soprattutto uno degli elementi simbolici fondamentali di tutto il mito, cioè il filo?

Ragno con la sua ragnatela

La presenza dell’elemento del filo è connaturata al tarantismo e ne sottolinea l’aspetto mitico. Ad esempio ad Acaya, che come Galatina è un luogo in cui è ben visibile l’associazione tra il fenomeno e la devozione paolina, esiste questo detto popolare: «se nuncci ttrei lu filu la taranta nun ci bballa», che significa che non si trova il filo, cioè la giusta “divisa musicale”, la taranta non balla e quindi non può avvenire il processo di guarigione. Il filo ricorda anche il mito di Arianna, che permette a Teseo di uscire dal labirinto; anche qui, l’uscita indica un processo di guarigione e rinascita. Il labirinto ha legami con la ragnatela essendo spesso simboleggiato da una rete, e il centro di essa da un ragno. La ragnatela, come il labirinto, è il luogo della morte, da cui occorre uscire per tornare alla vita. Questo aspetto è sottolineato anche dalla danza della pizzica, fatta di passi avanti ed inversioni, che simboleggiano appunto un percorso labirintico e, al tempo stesso, la rigenerazione di un ordine precedentemente frantumato, che viene ricostruito con l’uccisione simbolica della taranta, del ragno divino, animale legato anche alla Magna Mater. A quest’ultimo culto, di matrice arcaica, si ricollega il rituale del tarantismo, che fa uso di dualità simboliche, caratteristiche anche dei culti orfico-dionisiaci, con cui intrattiene molte analogie.

Interpretazione pittorica del mito di Aracne.

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